Frottole?

Viaggiando verso Ovest
Giuseppe Tuttobene
Wed 27 Oct 2010 03:53
24:16.69S 177:58.05W
27 ottobre 2010
 
Qualcuno di indole diffidente e sospettosa, forse perché nato sotto il segno dello scorpione, potrebbe essere indotto a pensare che noi di Chloe, a corto di argomenti stimolanti,  facciamo uso della più sfrenata fantasia per inventare vicende mai vissute o colorire quelle reali con dettagli ingannatori al solo scopo di apparire agli occhi del lontano lettore interessanti e singolari.
Questo potrebbe essere considerato il caso delle foto delle balene. Confessi chi di voi non ha pensato che quelle foto sarebbero potute facilmente essere reperite, per esempio su internet, e spacciate per proprie!
Così pure potrebbe essere considerato di fantasia il resoconto che mi accingo a narrare anche per una lontana somiglianza ad un racconto, di ben altro spessore, di un certo Ernest che avrei voluto tanto conoscere.
Partiti  da Vava'u intorno mezzogiorno del 25 ottobre, navigavamo a nove nodi in direzione Whangarei (N.Z.) spinti a nove nodi da trinchetta e una mano di terzaroli trascinandoci dietro, speranzosi, un'esca che solo un "pesce siluro" avrebbe potuto, a suo danno, afferrare a quella velocità.
Il cielo coperto da spesse nuvole grigie, che ogni tanto ci deliziavano con brevi scrosci di pioggia, e il mare cupo picchiettato di bianco costituivano il paesaggio per nulla rassicurante l'inizio di una traversata verso sud di 1200 miglia.
Le condizioni meteo-marine del passaggio Fiji o Tonga - Nuova Zelanda sono, come ho potuto constatare sia leggendo vari testi sull'argomento, sia seguendo negli ultimi due mesi il meteo, sia parlando con altri skipper, difficili da prevedere per la lunghezza della traversata e per la loro mutevolezza con il crescere della latitudine: ci si sposta, infatti, dai 18° di latitudine sud di Vava'u ai 37° di Ackland, lasciando la fascia degli alisei e addentrandosi in una zona che sempre più è influenzata dal passaggio delle violente perturbazioni che scorrono verso est sotto la Tasmania e la Nuova Zelanda. Questo può comportare che il vento, a metà percorso, giri con forza di burrasca a sud-ovest, cioè sul muso, il che non è carino.
Le varie fonti meteo consultate ci hanno dato per "certo" un regime di aliseo per circa una settimana ed è questo il motivo che mi ha spinto a decidere per la partenza immediata nonostante il colore del cielo e del mare.
Ed è in questo tetro tardo pomeriggio, con un intuibile stato d'animo di timorosa incertezza, che Cesare vedeva partire il mulinello e flettere la canna. Mentre io disinserivo il pilota automatico e portavo la barca all'orza, al limite del fileggiare delle vele, per arrestarne la corsa, lui cominciava un combattimento che si è protratto per un tempo interminabile.
Il pesce, se dico enorme sembra l'esagerazione tipica del pescatore, ma lo dico lo stesso, saltava mostrando l'imponenza del suo grigio corpo contro il grigio del cielo e guadagnando sempre più lenza. La canna era piegata allo spasimo, temevamo che si dovesse spezzare da un momento all'altro, mentre Cesare lavorava sul mulinello, ormai quasi rovente, nel tentativo di non fare esaurire il filo; sudava, sentiva la stanchezza alle mani, alle braccia, ma non mollava, continuava a girare freneticamente la manovella del mulinello che invece continuava a slittare per la forte tensione. Poi lui, il marlin, si è inabissato continuando a tirare verso il basso, sempre più sotto. D'un tratto la tensione si è ridotta drasticamente come se la preda, esausta, avesse ceduto e si fosse abbandonata passiva al suo destino. Ora Cesare riusciva a recuperare metro su metro portando l'animale sotto la nostra poppa: si vedeva bene il suo spadino, il suo grosso e scuro corpo stremato, l'ovale macchia chiara, larga un paio di palmi, che si stagliava sul suo fianco. La macchia chiara era un cratere profondo una quindicina di centimetri, a limiti nettissimi come se fossero stati tracciati con un bisturi e non con un morso di pescecane.
Dovevo lasciare il timone e assumere un ruolo più attivo nella cattura: così ho reinserito il pilota, mantenendo la stessa prua controvento, e con il raffio ho agganciato l'addome del marlin, tentando di sollevarlo con tutte le mie forze: impossibile, non appena il corpo della preda usciva per meno della metà dall'acqua il suo vero peso contrastava ogni mio sforzo rendendolo vano. Quattro mani, le mie e quelle di Cesare, aggrappate al manico di legno del raffio, non avevamo altri appigli sul pesce se non la sua spada che era però seghettata e tagliente, con una fatica immane, abbiamo portato il marlin fin quasi all'altezza delle draglie, mancavano cinque o dieci centimetri e la bestia sarebbe stata dentro la barca. Ma quell'elegante strumento degno di uno swan, con il suo lucente ed acuminato gancio di acciaio saldamente fissato al manico da ordinate e precise volte di filo metallico, si è rotto e il pesce è ritonfato in mare trattenuto, per fortuna, dalla lenza ancora incredibilmente integra.
Seguivano a questo punto ridicoli tentativi per non perdere definitivamente la preda. Seduto nel passavanti sulla coperta ero lì, ebete, a reggere la canna con tutto quello che avevo, mani, gambe, pancia, mentre Cesare, sporgendosi dalla falchetta, cercava di passare un cappio attorno alla spada del marlin che, con il rollio e il beccheggio della barca
, si avvicinava fin quasi a farsi toccare per poi allontanarsi in basso di qualche metro. Pensavo quanto difficile fosse recuperare un uomo senza sensi caduto in mare.
Alla fine vinti dall'evidenza, dalla stanchezza, dal mal di mare, abbiamo tagliato la lenza.
Unico soddisfatto il pescecane.
Giuseppe