Ua Huka - regata

Viaggiando verso Ovest
Giuseppe Tuttobene
Tue 11 May 2010 21:18
8:56.42 S 139:34W
Ua Huka è una delle isole settentrionali delle Marchesi
insieme con Nuku Hiva. Qui abbiamo notato che le fitte foteste delle isole
meridionali si sono diradate lasciando spesso spazio a montagne erose, talvolta
tondeggianti, assolutamente aride e brulle o appena ricoperte da vegetazione
bassa e arbustiva. Con questo non voglio dire che mancano i grandi alberi, le
palme e la foresta, solo che complessivamente i luoghi danno l'impressione che
qui la pioggia scarseggi.
La seconda notte a Ua Huka ci siamo fermati nella "Baia
invisibile", un fiordo stretto che si insinua nella costa sud, a la cui
imboccatura il mare frange pesantemente e al cui interno entra un'onda di
risacca che segue l'asse della stessa baia. Nella parte più interna c'era già
una barca, un Oyster di una settantina di piedi; noi abbiamo filato 60 metri di
catena di prua e calato una seconda ancora di poppa, per tenere ferma la barca
nello stretto canale, quasi sulla prua dell'Oyster. Ma non bastava: sia il vento
che la corrente ci avvicinavano fastidiosamente alla alta parete rocciosa di
sinistra che vedevamo minacciosa a una decina di metri. L'ancora di poppa, una
Cqr di 27 kg con 20 metri di catena e 40 di cima, arava e non riusciva a tenerci
al centro del fiordo. Dopo vari tentativi di ridare fondo senza grande successo,
caliamo una terza ancora, una enorme Danfort, sulla nostra dritta per
allontanarci dalla parete. In tutto questo l'altra barca aveva arato e si era
spostata alla nostra dritta, calando anch'essa tre ancore.
Vediamo il nome: "Restless", senza riposo. Era una barca
che avevamo già incontrato alle Galapagos con la quale avevamo avuto a che
ridire, tanto che prima di salpare avevo lasciato a bordo un biglietto di
lamentele che terminava con la frase "Restless because of Restless", senza
riposo a causa di Restless. Avevamo infatti dovuto cambiare ancoraggio per colpa
loro che avevano lasciato la barca incustodita con il pericolo, che girando il
vento, ci toccassimo.
"Restless, I remember of You!", urlo antipaticissimo,
come so esserlo in certe occasioni, quando si ancora accanto a noi nel
canale.
Il ragazzo che era al timone, dopo aver finito la sua
manovra, si avvicina con il gommone e con un inglese molto americano si scusa
per la volta delle Galapagos e fraternizziamo. Loro erano in quattro, tutti
molto giovani.
Brutta notte, con gran beccheggio in uno spazio
ristretto e inquietante.
I due equipaggi, di Chloe e di Restless, erano ormai
impegnati nel salpare tutte quelle ancore, quelle cime, quelle catene e si
guardavano quasi in cagnesco pronti a competere alla sfida, mai palesemente
lanciata, ma evidente, di arrivare per primi alla comune successiva meta
distante 30 miglia: Nuku Hiva.
Li aspettiamo fuori issando la randa temporeggiando a
dare genoa; finalmente arrivano, srotolano la randa avvolgibile e con genoa
tangonato a farfalla, fanno rotta diretta in poppa piena su Nuku Hiva. Noi
scegliamo di fare bordi di lasco, che sono molto più veloci ma che fanno anche
allungare la strada. Con direzioni divergenti ci allontaniamo sempre più, ma
abbiamo sempre più la sensazione Restless ci stesse bastonando alla
grande. D'altronde la barca era abbastanza più lunga e quindi teoricamente più
veloce.
L'entusiasmo della gara si era impossessato di noi
e ho ritrovato in Cesare una competività pari alla mia, il che è tutto
dire!
Decidiamo di dare spinnaker sulle altre mura. Il vento
vero oscillava tra i 20 e i 25 nodi, il mare era spumeggiante con un onda di un
paio di metri. Voliamo, i nostri nemici, che erano ormai diventati un puntino
bianco, diventano, per via delle rotte convergenti, sempre più grandi, sempre
più vicini: la competizione era ancora aperta.
A dieci miglia dall'isola vediamo improvvisamente il
nostro spinnaker allontanarsi dalla prua della barca svolazzando e poi adagiarsi
sul mare davanti a Chloe che correva, trattenuto solo dalla scotta e dal
braccio. Si era rotta la drizza e ormai lo spi era tutto in acqua con il rischio
che finisse sotto la barca con conseguenze disastrose che non oso
immaginare.
"Orza, orza che ci va sotto", grido a Giovanni che
era al timone, mentre tutti ci precipitiamo a tirare l'enorme vela a bordo.
Impossibile: era come tirare una corda saldamente legata ad un masso.
"Ferma la barca, ferma la barca, orza,
orza".
Una fatica infinita, una vela enorme che piano piano
viene su e viene buttata grondante di acqua di mare in quadrato. Disordine
infinito, cime, scotte, bracci, amantigli, tangoni, buttafuori, tutto da
risistemare. Alla fine eravamo stremati, una stanchezza immane, patologica,
forse gli esiti della ciguatera, ci fa stramazzare a pagliolo, ormai con il
tendalino montato e l'ancora calata, e addormentare in una baia
diversa da quella scelta per l'arrivo che abbiamo battezzato "baia della
vergogna".
Giuseppe
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